Noi camminiamo lungo i binari del treno e riposiamo sui gasdotti
il nostro fiato è il fumo nero di una ciminiera,
la nostra stella polare è la luce gialla di un lampione.
2016, Lungo i binari del treno, Kalashnikov collective 
(orig. “По трамвайным рельсам” by Yanka Dyagileva 1987)


«Sei pronta DeeDee?» mi chiede Panatta.

«Sì, sono pronta» rispondo e salgo su quel palco davanti a così tante persone ammassate l’una sull’altra da ricordare il brulicare del piccolo popolo nella vita batterica dell’humus del sottobosco. Una massa calda e percorsa da battiti, vibrazioni, ronzii, respiri, condensa, puzze, ruvidità, attriti e morbidezza, umidità e ossa dure, giunture spigolose e denti che sembrano candidi sassi. Salgo sul palco del concerto illegale che farà la nostra storia e la storia della musica, perché è dagli anni Venti che non si assiste ad un fenomeno, anche solo paragonabile, in quanto a numero di partecipanti e ore suonate dal vivo di seguito. 

In ogni data del nostro tour, lungo 6 stagioni, abbiamo portato con noi chiunque avesse voglia di seguirci o fosse in possesso di uno strumento. C’è chi ci ha seguito con batterie realizzate con pentole e pezzi di elettrodomestici, chitarre ottenute da scatole di legno ed elastici ben tirati, strumenti a fiato ottenuti dai desueti tubi di scappamento di automobili abbandonate e chi ci ha seguito suonando la propria voce o perché non aveva mai visto Mosca o chi non voleva interrompere un discorso iniziato sotto il palco e allora, così come era venuto, è salito sul camper perché certi discorsi non si possono interrompere a metà. 

Abbiamo percorso migliaia di km su strade distrutte dalle piogge e dal gelo. Pozzanghere ghiacciate che, come in un contagio, si diffondono di crepa in crepa fino a far sparire il manto stradale. E fango, fango e alberi a perdita d’occhio per ore e ore. 

Il nostro contatto russo ha pochi denti in bocca, un sacco a pelo, una spazzola e delle pedine di scacchi avvolte nello stesso asciugamano che dovrebbe usare per lavarsi. Con i denti che gli sono caduti, a causa della carenza di vitamine ed eccesso di alcol tipico di queste lande, ne ha fatto un ciondolo che porta al collo. 
Ci ha accompagnato per le prime settimane del tour oltre i confini dell’Antica Russia e poi si è fatto lasciare a piedi, nel nulla, con la promessa di ritrovarci a Mosca 5.0 per la data conclusiva del tour. Prima di congedarsi, ci ha fatto tre raccomandazioni:

  1. Non fidarsi mai degli sbirri, che non ha mai accettato di chiamare Tutori della Serenità, perché violenti e corrotti
  2. Non sostare più di 15 minuti all’aria aperta di notte con oggetti metallici in mano, o addosso, per evitare che ci si appiccicassero alla pelle nottetempo
  3. Stare attenti agli orsi

«Come? Come possiamo proteggerci dagli orsi? E quali orsi?» aveva chiesto allarmato Giulio. 
«Non rimanete mai a secco e non passate la notte in autostrada. Gli orsi hanno lunghi artigli, capaci di dilaniare le lamiere» aveva concluso, allontanandosi coi piedi nel fango oltrepassando quel confine di neve sporca, pozzanghere e bottiglie rotte, dirigendosi verso un nulla siderale fatto di alberi neri, candida neve e molto probabilmente orsi dai lunghi artigli capaci di dilaniare lamiere. 
«Si sta sicuramente suicidando – aveva commentato Giulio – cerchiamo se ha lasciato un biglietto da qualche parte. Viktoooor – aveva urlato con voce strozzata – Viktoooor, torna indietro!» continuava ad urlare con mezzo busto fuori dal finestrino, intanto che la carovana che si era creata dietro al camper di Monica cominciava a farsi impaziente e a ululare feralmente: “Viktoooor! Viktooor!” tra i clacson e il fragore dei coperchi di pentola adattati a charleston e le botti di legno come grancasse. 
Viktor si era girato e aveva sorriso con quei due denti che gli rimanevano in bocca e aveva urlato qualcosa che non eravamo stati in grado di comprendere. Lo avevamo dato per disperso eppure è lì, sotto il palco, con la sua aria stropicciata e gli occhi buoni nascosti dalla malinconia di quei lineamenti così marcati dagli anni. 
Viktor aveva avuto una band piuttosto nota e molto attiva nell’ultimo decennio del secolo precedente. Sebbene non avesse dovuto, come i suoi predecessori, sfidare la censura esplicita del regime comunista che reputava il punk, per esempio, effetto collaterale e marcio del sistema occidentale e, ubiquitariamente, di essere anche troppo critico nei confronti dello Stato, Viktor aveva avuto a che fare con la Russia pre-rivoluzione del Buonsenso.

Un Paese che viveva nel culto della personalità del proprio presidente, in cui a giornalisti troppo curiosi e oppositori politici accadevano strani incidenti con il veleno, i Pride assomigliavano al massacro delle foche sulle coste della Namibia e un collettivo punk, di nome Pussy Riot, venne condannato a tre anni di reclusione e lavori forzati per “teppismo premeditato realizzato da un gruppo organizzato di persone motivate da odio o ostilità verso la religione o un gruppo sociale” a causa di una performance situazionista all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore, in cui nessuno si fece male se non le tre donne protagoniste del concerto improvvisato.  Viktor detto “Grob” (che vuol dire “bara” in russo), un vecchio punk di appena 50 anni, nato nell’orribile cittadina mineraria di Mončegorski in cui si estraeva e si lavorava il Nichel destinato al mondo interno, che era cresciuto ascoltando i gruppi imbrigliati dalla dittatura del proletariato, perseguitato dall’ossessione per il controllo della Russia patriarcale e capitalista e infine insterilito dall’attuale sistema del Buonsenso della Woland Corporation & Co.  eppure è lì, con la sua collana di denti e una bottiglia di vodka in mano che urla “Davai, davai, porco dio!”. Glielo abbiamo insegnato noi, sebbene le bestemmie non abbiano più molto senso nell’epoca della razionalità laica, in cui nessuno fa guerre in nome di un dio o di un’ideologia.

Nessuno opprime, schiaccia, stupra o si arma per invadere i confini e bombardare le città. 

 Abbiamo illuminato le nostre città affinché il male non avesse ombra in cui celarsi. Abbiamo installato telecamere ovunque, perché i nostri occhi servano solo ad ammirare quella sezione di tramonto inquadrata dalle finestre del nostro salotto. Non abbiamo bisogno di pregare o bestemmiare perché non esistono angoli bui in cui ogni rumore è sospetto e il ritmo di quella goccia che si riversa dalla grondaia – giù fino al tombino, scontrandosi con le lamiere delle auto abbandonate dai vetri infranti e le gomme tagliate – è minaccia di passi sospetti alle nostre spalle. Nessuno abbandona auto, infrage vetri o taglia gomme. Non esistono vicoli bui in cui aver paura o ideali per cui immolarsi.  

Non abbiamo bisogno di un dio da ringraziare per il tramonto di questa sera. Ho individuato differenti palette Pantone che andavano dal 7687C al 165C. Da togliere il fiato, perché in questo momento storico è soltanto la bellezza a farci mancare il respiro. Noi non abbiamo strade tormentate dalla puzza della spazzatura decomposta o l’acqua fetida delle pozzanghere nei buchi dell’asfalto dissestato, non abbiamo macchine imbottigliate nel traffico che sbuffano demoni pronti a possedere, rendere impuri e malati, i polmoni dei nostri figli. Non abbiamo terapie preventive per l’asma o il bisogno di clown che facciano sorridere bambini senza capelli a causa dei raggi della medicina nucleare. Abbiamo vissuto sereni nelle nostre case, come piccoli criceti in una gabbia dai colori terapeutici e le forme ergonomiche, che ci proteggono dai bernoccoli e le imprecazioni di mignoli contro spigoli. 

Non abbiamo bisogno di bestemmiare perché nei nostri ospedali non si muore di malattia. I nostri medici non saturano ferite e non infilano divaricatori nelle arterie ostruite dai grassi saturi. 

Nell’epoca del buonsenso non abbiamo presidi e proteste di madri e padri che credono alla favola del corpo di Cristo adagiato sulle loro lingue nel formato di un crackers anemico, ma contestano la capacità dell’uomo di sviluppare l’immunità al vaiolo se inoculato secondo un metodo scientifico. 

Ed è grazie a Woland se non conosciamo le smorfie dei loro volti in collera perché lo stregone del complotto, del sospetto e dell’ignoranza fa loro odiare un diavolo in camice e stetoscopio, ma adorare un dio che arma di un coltello un padre sul monte Moriah come prova di fede. 

Abbiamo dimenticato lo strazio e la bruttezza dei pianti di coloro a cui dissero di pregare fortissimo, affinché la setticemia, il diabete e la meningite liberassero i corpi dei loro figli. Corpi… Che finivano comunque sotto la terra, ché non è un luogo migliore di questo, a meno che al posto di cuccioli umanoidi non fossero stati tuberi. Sì, patate e topinambur di due, sette e quindici anni su cui i vermi ora banchettano. 

Ed è merito dell’algoritmo se, adesso, ciò che fa male è illegale. E fin tanto che qualcuno non potrà mettere nero su bianco e misurare l’esistenza di dio, della sua parola noi non ne facciamo la nostra legge.

Eppure continuiamo a farlo. Preghiamo e bestemmiamo. Ci inventiamo rituali e cerimonie. Celebriamo ogni cosa che amiamo, malediciamo tutto il resto. Ed io, in questo momento solenne che precede ogni concerto, prego il fuoco affinché possa bruciare le mie bugie.

Mi chiamo Dorotea Disastro e vi chiedo di perdonarmi, se potete.


"Il grande rogo del '25" è un romanzo in progress scritto, letto e montato da .

Musiche di Heimat Der Katastrophe. 

La canzone iniziale e finale è un'interpretazione di "Lungo i binari del treno / По трамвайным рельсам" by Yanka Dyagileva cantata da me ai tempi dei "tour scemi" (cit.) in Russia insieme ai Kalashnikov Collective. Esperienza che, ovviamente, ha ispirato buona parte di questo romanzo.

Se volete sapere qualcosa di più sui "tour scemi in Russia" trovate tutto il reportage qui.

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