Yeah, I’ll be seeing you in hell

1983, Die, die my darling, MISFITS

Seguimi in questo tunnel di rovi, di rampicanti e macerie dove i baci sono morsi che sbranano il dolore. 

2016, L’amore in tempi dispari, KALASHNIKOV COLLECTIVE

Il ginocchio di Fausto sfiorava il mio. Ed io ricambiai spingendo il mio, contro il suo con una maggiore pressione perché sapevo che ciò era sconsigliato e inappropriato. Pochi centimetri di pelle a contatto che parlavano un linguaggio che solo noi potevamo comprendere. Fausto abbassò il volto per nascondere un sorriso sconveniente. Ed io spinsi ancora più forte la mia gamba (ora, persino la coscia) contro la sua, perché era qualcosa che non avevo mai fatto prima e il mio corpo, in quei centimetri di pelle, esercitava un potere che io non avevo mai sperimentato. Come il mio ginocchio contro il suo, così i nostri corpi nudi sotto i palmi delle nostre mani e quei baci che assomigliavano a morsi, pronti a sbranare voracemente quella che era stata la mia, e la nostra vita, prima di quella notte , quella stessa vita che però si ERA FATTA strada, ostinata e inamovibile, insieme alla luce del giorno.  

Avevo già fatto sesso, certo, ne avevo fatto quanto basta, eppure stavo sperimentando la sensazione più erotica della mia vita, in quella pressione del mio ginocchio contro il suo, nella sala d’attesa dell’ufficio dell’assistente del signor Woland in persona e della sua squadra di lavoro. 

La nostra “presentazione” del progetto per la conquista del segmento di pubblico, che rifiutava di sottoscrivere l’abbonamento alla piattaforma di musica digitale della Woland Corporation, aveva fatto parecchio rumore… nel vero senso del termine. Così tanto rumore da arrivare ai piani altissimi dell’edificio e, da lì a pochi istanti, avremmo dovuto parlarne direttamente con la squadra di lavoro che, non solo era a capo della delegazione di Milano, ma lavorava a stretto contatto e si relazionava direttamente, ogni giorno, con Michail “Huxley” Woland in persona. 

Avevamo ottenuto ciò a cui nemmeno i più alti livelli potevano ambire. Arrivare al nucleo, alla testa pensante dell’edificio dai vetri dei colori del cielo, era qualcosa che neanche Fausto aveva mai vissuto o sperato di poter vivere nell’intero arco della sua carriera. Ed era nervoso. Era eccitato, ancora. Ed io come lui, sebbene nell’ultima notte passata insieme non avessimo fatto nulla di eccezionale se non ubriacarci, ascoltare musica e fare sesso. 

Ma ciò che rendeva tutto così sconveniente, sbagliato ed “emotivo” era l’averlo fatto perché lo desideravamo e senza pensare alle conseguenze e ai vantaggi che bere, fare sesso, ascoltare musica e raccontarci i nostri più intimi pensieri, avrebbe generato nelle nostre vite a breve, medio o lungo termine. 

Non avevamo fatto foto e non avevamo immaginato le possibili reazioni delle nostre comunità elettriche. Fare sesso con un utente con il seguito che vantava Fausto, mi avrebbe portato ad un aumento di fedeli e seguaci, mi avrebbe catapultata nel mondo di quelli che la gente imita e assume a figura di riferimento e statistica. Documentare l’aver fatto sesso con lui, avrebbe aumentato il mio punteggio sociale, eppure non mi aveva minimamente sfiorato il pensiero di interrompere ciò che stavo vivendo per estrapolarne un istante ad uso e consumo del mio pubblico. Non avevo pensato a didascalie buffe e profonde da associare alla nostra esperienza comune. Non sentivo nessuna voce interiore che narrava il presente, immaginando poi come sarebbero suonate quelle parole nel report sociale quotidiano sul mio diario digitale. Avevo vissuto e basta… senza lasciare traccia. 

Me ne ero resa conto solo dopo aver riattivato il mio dispositivo occhio-orecchio, ed essermi accorta, che tanti mi avevano cercato non vedendo più la mia testimonianza di essere viva. Avevo mangiato e cosa? Avevo fatto esercizio fisico? Quanti chilometri o a quale frequenza cardiaca? Quante calorie o oggetti di cultura e intrattenimento avevo consumato? 

Uno scatto alla copertina e una serie di stellette per giudicare, con un semplice tocco delle dita, il lavoro di mesi o anni di un altro individuo. Avevo comprato dei vestiti o provato una nuova acconciatura grazie ad un simulatore virtuale? Non esisteva testimonianza del maglioncino nero abbinato alla camicia verde smeraldo che avevo indossato la mattina, guardandomi allo specchio. E i miei esami del sangue senza asterischi? Scatto. Esami del sangue con qualche infausta diagnosi? Scatto e foto-ritratto nel letto di ospedale. Perché senza la reazione di un pubblico, il fatto non sussiste. Perché da quando abbiamo rinunciato alle emozioni e le passioni, è solo l’approvazione o la contestazione degli altri a misurare la nostra gratificazione e miseria. Perché se non lo racconti, non lo hai vissuto. Se non lo fotografi non lo ricorderai. Se non lo comunichi, non lo senti. 

Eppure io avevo ascoltato Fausto per delle ore. I suoi ricordi, le sue emozioni, il suo vissuto di quell’epoca che ricordavo solo nei racconti epici, frammentari e distratti di quel fantasma dell’uomo che doveva essere stato un tempo mio padre. Ai tempi non sapevo neanche se fosse ancora vivo. Il mio genitore che non avevo mai chiamato papà…

Non avevo rapporti con i miei genitori da quasi sette anni. Da quando, compiuti i sedici, avevo abbandonato la casa in cui ero cresciuta e preso una stanza in dormitorio, secondo quanto stabilito dalla legge.   Sotto il regime del buonsenso nessuno è obbligato moralmente o legalmente a mantenere un rapporto con la coppia genitrice se, statisticamente, la relazione non rappresenta un vantaggio per tutte le parti coinvolte. Ma ciò non accade quasi mai e, come una malattia genetica, nonostante tutte le precauzioni di igiene pedagogica adottate, gli errori dei genitori si riversano sui figli che a loro volta contaminano di aspettative, bisogni puerili di affetto, affermazione, rivalsa e approvazione irrazionale ogni altro legame. 

Staccare il cordone ombelicale non ha mai avuto così tanta importanza come nell’epoca post-pandemica in cui fummo tutti costretti ad accettare che, per tornare alla vita, dovevamo liberarci della zavorra. 

Vecchi, malati, indigenti, disoccupati, tossici, disturbati, alienati, handicappati, depressi cronici, stupidi dal QI infimo… Senza di loro, spazzati via dal virus, dal rifiuto di vaccinarsi o dall’interruzione dell’erogazione di qualsiasi servizio sanitario e assistenziale statale, che troppo spesso si dava per scontato, venne rianimata un’economia attaccata ad un polmone artificiale che prometteva, senza alcun buon senso, il benessere di molti a discapito di tutti. Senza stolti, fragili e malati a pesare sulle spalle di noialtri sani studenti e lavoratori dalle eccellenti prestazioni, si vive decisamente meglio. 

Durante i miei studi universitari ho dato un esame di Storia del sentimentalismo con un focus sulla “disperazione”. Non mi fu difficile immedesimarmi in un mio coetaneo degli anni Venti, ma mi sembrava così assurdo che così pochi avessero preferito una razionale interruzione della propria vita, in nome di una non computabile speranza che qualcosa sarebbe cambiato nelle loro vite, migliorandole. Loro, di certo, non potevano sapere che Woland avrebbe rivoluzionato, salvandole, le nostre esistenze. 

Ma uno come Fausto, per esempio, che aveva studiato in una scuola pubblica in cui i docenti non insegnavano la storia più recente che andava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando per gli anni di piombo, per arrivare a tangentopoli – argomenti che la politica considerava divisivi – perché , buona parte di ciò che era accaduto in quegli anni, non aveva ancora una verità ufficiale (o pronunciata dai tribunali) che potesse essere raccontata. E allora ecco che la storia finiva con la vittoria della democrazia al referendum del ‘46 ed un breve cenno su chi, quella democrazia, l’aveva conquistata, costruita e rivendicata. 

Fausto poi aveva frequentato l’Università statale e cercato un impiego, rendendosi conto di essere in ogni caso scavalcato da chi, grazie ad un percorso accademico e formativo a pagamento, era più preparato per il mondo del lavoro, più inserito, più colto, più bravo a scrivere una lettera d’impiego e a sostenere un colloquio.

Fausto aveva passato i primi 10 anni dopo il diploma di laurea a collezionare contratti di lavoro precari, mal pagati e non specializzati, che gli avevano fatto dimenticare quel poco che aveva appreso durante gli studi. Era riuscito ad ottenere un contratto decente, che di anni ne aveva trenta e un ruolo decisionale solo a 35 anni. 

«E per voi donne era anche peggio» mi aveva detto quella notte, confermando il frutto dei miei studi per quella tesina sulla disperazione. «Attorno ai 30 anni, dopo oltre 10 anni che lavoravo e studiavo, mi è arrivata una lettera da quello che un tempo era l’ente provvidenziale, grazie alla quale appresi che avrei dovuto lavorare fino a 79 anni. Ed era stato così anche per Giulio, che lavorava con gli anziani non autosufficienti che al tempo venivano ancora tenuti in vita e c’era gente come lui, per l’appunto, che veniva impiegato per nutrirli, lavarli, farli andare persino in bagno» mi aveva raccontato.

«Era una strana epoca la vostra. Mi stai dicendo che il protocollo DEATH ( Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene) non veniva applicato?» avevo chiesto. 

 «Negli anni Venti, prima della pandemia, il protocollo DEATH era soltanto l’acronimo di Dressing, Eating, Ambulating, Toileting, Hygiene ed era uno strumento di misurazione per valutare la gravità dello stato di salute di un individuo e la sua autonomia nello svolgere le attività quotidiane. Non era come oggi, col sistema attuale, in cui se un individuo non è in grado di vestirsi, mangiare, camminare, andare in bagno e lavarsi in autonomia, allora viene eseguita la sentenza e quindi c’era bisogno di persone come Giulio che se ne occupavano e, se non fosse stato per Woland, l’aspettativa era quella che avrebbe dovuto farlo fino agli ottant’anni e badare così a suoi coetanei!» 

Follie democratiche che ci siamo lasciati alle spalle. Ora, disabili permanenti, malati terminali e anziani non autosufficienti vengono accompagnati con dolcezza, verso una morte liberatrice. Non ha alcun senso obbligare loro ad un’esistenza di sofferenze e umiliazioni, sovraccaricare di fastidi e imporre sacrifici alle famiglie e costi per lo Stato ed i contribuenti. Senza neanche bisogno di prelevare una singola goccia di sangue o materiale organico, inoltre, un potente programma di calcolo è in grado di individuare, facendo interagire tra loro le due sequenze di DNA di chi desidera un figlio, le  possibili malattie genetiche invalidanti o la tendenza a gravi patologie prima ancora del concepimento. 

«Assurdo! Vivevi in un’epoca priva di senso. E lo Stato? Come giustificava questa follia? Voglio dire, come poteva risultare credibile nell’emanare leggi che obbligavano una carcassa ambulante a dover prendersi cura, per lavoro, di altri soggetti inutili al benessere comune?» avevo chiesto, pur sapendo la risposta. Sapevo molto bene che, ai tempi, il mondo era in mano a uomini (soprattutto) e donne che avevano superato da tempo l’età del ritiro e che, avidamente (anche l’avidità era frutto del sentimentalismo dopotutto), partivano dal presupposto che la propria condizione di privilegio, come essere in buona salute, l’accessibilità all’assistenza e alle cure mediche, fare un lavoro intellettuale con la possibilità di delegare a schiere di schiavi ed assistenti, fosse applicabile ad ogni strato e classe della società. No, per loro non sarebbe stato un problema lavorare, in quelle condizioni, fino agli ottant’anni. E poco importava se non avevano formato degli eredi capaci di proseguire il loro lavoro, perché fintanto che fossero stati in vita, avrebbero costituito una minaccia e, una volta morti, non avrebbero avuto alcun interesse sulle sorti dell’azienda che gestivano, dell’ente di cui erano presidenti, della cattedra universitaria che occupavano, del ruolo amministrativo per cui erano stati eletti e così via. Egoisti e avidi che non vedevano al di là della propria ricchezza terrena da proteggere con tutto il potere che erano in grado di esercitare. 

La vera svolta della rivoluzione di Michail “Huxley” Woland fu quella di smascherare l’avidità liberale, in quanto frutto corrotto di un sentimentalismo irrazionale. Che le masse proletarie fossero manipolabili attraverso l’emotività su cui facevano leva i cosiddetti populisti non era una novità, ma che persino i vertici del mondo fossero messi su di un patibolo e svestiti delle proprie corazze, privati di quel potere abusante e distruttivo, liberati dalla gerarchia che li proteggeva indebolendo il tessuto sociale, era qualcosa che raramente si era visto prima; ad accezione delle grandi rivoluzioni che però erano partite dal basso e poi fallite per motivi, purtroppo, maledettamente emotivi e irrazionali.

L’epoca che aveva preceduto la pandemia era stata decisamente assurda e disperata. Di tutte le storie che mi aveva raccontato Fausto quella notte, l’unica sensata era stata quella di Wendy che aveva deciso di ammazzarsi.

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