A partire dalla pandemia del 2020 e nel decennio successivo, queste cloache di illegalità e sporcizia, vennero sgomberate, murate e dispersi i collettivi che le occupavano e le abitavano. Il medesimo trattamento fu riservato ad ogni forma di illegalità e devianza che minacciava una possibile nuova ondata di contagi o di incendi. Il terrore per la malattia e il caos del 2025 spianò la strada all’applicazione scientifica delle teorie di Woland e della sua riforma. 

E così vennero chiusi i centri sociali e le case occupate, repressi gli scontri durante i cortei e le proteste simboliche apparentemente pacifiche, messe a tacere le radio clandestine e sequestrata ogni singola fanzine o volantino, ma ciò che ne emerse è che la gente, senza questi luoghi in cui organizzarsi e aggregarsi tra simili, creare musica, arte e altre inutili baggianate politicamente ininfluenti – in fin dei conti – in quel momento storico in cui si resero conto di vivere la vita dei loro padri e delle loro madri tra monogamia, famiglia, casa, lavoro e routine asfissianti (eppure infinitamente più poveri rispetto ai propri genitori), sbroccarono del tutto nell’acquisire la consapevolezza di essere, dal lunedì al venerdì, degli schiavi. 

I primi fuochi vennero appiccati dai fascisti e dagli anarchici, gli uni contro gli altri. Seguirono mesi e anni di incendi, disordini e distruzione in cui i libertari davano fuoco alle macchine dei padroni, ai simboli dell’oppressione e ai palazzi dei potenti. 

I fascisti al potere incendiavano gli animi del popolo più povero di capacità critica (e facilmente infiammabile) puntando il dito sulla sovversione anarchica, l’insofferente miseria dei migranti e la coesa autodeterminazione di popoli con un dio, e un’idea di società, in disarmonia con la propria tiepida condanna di rana bollita su un fornello acceso. E ancora fuoco.

I roghi dei campi Rom si estesero fino ai quartieri popolari dove i più giovani figli della miseria e dell’invidia, approfittavano del caos e dei continui black-out, per scagliare molotov contro le Forze Armate e lanciare mattoni contro le vetrine di quei negozi di tecnologia elitaria, per cui erano stati sfrattati dalle strade in cui erano cresciuti giocando a pallone o facendo il palo ai fratelli maggiori che spacciavano. Questo esercito in poliestere, puzza di piedi e hashish, sfregiava le macchine dei borghesi, vandalizzava i loro ristoranti biologici e saccheggiavano i negozi di design e atelier di arte sperimentale, sbucati come foruncoli grazie alla riqualificazione urbanistica intossicata dai fondi destinati alla cultura, all’istruzione e al benessere sociale. Tutto questo prima di dargli fuoco, ovviamente. 

E gli impiegati, vedendo ridotta in cenere quella che (ancora 32 rate e) sarebbe stata la loro automobile, ibrida, perché si può parcheggiare all’interno delle linee blu del centro davanti a quel bar dove diluire, insieme al ghiaccio dei cocktail, la convinzione di non essere mai all’altezza delle situazioni, sentirono tutto l’affanno e la stanchezza di quella corsa verso la prossima promozione, la prossima vacanza, la prossima scopata, il prossimo weekend… e cominciarono, letteralmente, a darsi fuoco.

Senza preavviso, senza sorpresa, smisero di buttarsi sotto i treni, sedarsi con l’alcol e lo yoga per inzupparsi gli abiti di vodka polacca e trasformarsi in torce umane nella metropolitana all’ora di punta, nelle sale riunioni sotto il fascio di luce di un proiettore, nelle palestre open space… essi bruciavano, sorridendo e urlando di gioia e dolore. 

In quegli anni il cielo era rosso sangue e l’aria puzzava di grasso arrosto. Lo chiamarono il Grande Rogo Civile del 2025 e morirono centinaia di persone in ogni città, tra migranti di seconda generazione con le tasche piene di smartphone da migliaia di euro, pompieri martiri, sbirri linciati, gay e femministe messi al rogo dai sovranisti, pire di medici puniti da chi si sentiva vittima di un’inverosimile dittatura sanitaria, presunti untori colpevoli di focolai infettivi in occasione di feste di compleanno festeggiate in un fast-food… Fuoco, fuoco e ancora fuoco, con la stessa furia di quell’eruzione vulcanica che doveva aver distrutto Ercolano e Pompei. 

A spegnere il fuoco ci pensarono i neonati Tutori della Serenità della Woland Corporation. E furono proprio i primi sostenitori della dottrina del buonsenso – alcuni di loro erano stati gli incendiari della primissima ora – dopo aver contribuito a spegnere anche il più innocuo tra i falò, a sussurrare nell’orecchio dell’apparato statale che, forse, concedere al popolo (soprattutto a quelle tribù più insofferenti come i punk e gli appartenenti alle controculture in generale o a quei grandissimi rompiballe degli anarchici) qualche piccola libertà in quelle minuscole e controllate sacche di illegalità, rendeva di conseguenza possibile il lavoro nelle fabbriche, negli uffici amministrativi o nelle agenzie creative, per esempio. 

I punk, gli anarchici, i sedicenti rivoluzionari, i bombaroli e gli incendiari tornarono a pulire culi o lavorare nelle scuole (relazionandosi con genitori che non accettavano autorità all’infuori dell’eccellenza e la genialità del figlio). Accettarono di passare dalle otto alle dodici ore con persone con cui non avevano nulla da dirsi a parlare del meteo – ma non della crisi climatica – per non turbare la suscettibile armonia di quella cattività illuminata dai neon.

Chi aveva appiccato i primi fuochi tornò ad occuparsi di disabili, di reti idriche, impianti elettrici e patatine fritte servite con il ketchup a parte, pacchi e pizze al kamut da consegnare in fretta ed evitare una valutazione negativa o un richiamo formale. Si tornò, insomma, a lavorare esattamente come prima del Grande Rogo. 

Tutto questo fu possibile grazie a quella becera promessa festiva, ma a tempo determinato, di un concerto in cui esprimere le inclinazioni artistiche, di un piccolo corteo o sit-in in cui manifestare il proprio dissenso, tra una settimana lavorativa e l’altra. Dopotutto, a questi insofferenti e ribelli a cui “non vanno bene le cose”, basta la ricercata alienazione di queste oasi dove si sentono protetti e tra simili, per poi tornare il lunedì ad indossare un sorriso comune e timbrare il cartellino. Permettere l’esistenza di certi spazi non è altro, dunque, che una calcolata questione di buonsenso, di utilità e di efficienza. 

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