Un autobus di linea rallenta e si ferma davanti all’ingresso di ciò che un tempo doveva essere uno strip club e che, di quel passato, conserva i velluti, l’ammiccante penombra e gli affreschi di cattivo gusto. L’autobus è fuori servizio eppure è pieno di passeggeri. Hanno caschi neri, passamontagna e un esoscheletro di silicone, anch’esso nero ma che riflettendo la luce dei lampioni libera riflessi cangianti che vanno dal verde al viola e che gli ricopre il corpo dal torace agli stinchi. I grossi fucili che imbracciano, sono caricati con proiettili di gomma, ma hanno comunque l’aspetto minaccioso di zampe urticanti e pungiglioni di aracnidi mutanti. 

Scendono tre alla volta, in un batter d’ali senza emettere neanche il più debole dei brusii, dalle tre porte dell’autobus che si sono aperte sulla strada brulicante di persone accorse per il concerto. Il locale è già pieno, ma loro vogliono comunque entrare. Vanno dai 14 ai 50 anni e sono lì perché vogliono sentirci suonare dal vivo. Sono qui per la nostra musica. Se non fosse per questa motivazione, e cioè l’ultima data del nostro tour organizzata da una radio clandestina universitaria, probabilmente sarebbero nelle loro case. Al caldo e al sicuro. Ma invece la voce è girata in fretta e si è sparsa anche oltre i confini della città e ora ci sono centinaia di persone riversate in strada, che vogliono entrare in quello che un tempo era uno locale di spogliarelli e strusciamenti. Ma le porte sono chiuse dall’interno ed è inutile accalcarsi contro, in cerca di protezione o di una via di fuga da quegli uomini scesi dall’autobus che sparano, picchiano e calpestano chiunque, facendoli cadere sotto i loro colpi. 

Chi è stato più veloce dei proiettili, scappa verso quelle porte che non possono aprirsi, perché dentro sono state sprangate da altri soldato-insetto che da ore aspettavano il segnale concordato. Nel buio e nel silenzio di quelli che un tempo dovevano essere i camerini delle spogliarelliste di un club sexy ormai in rovina. Tra specchi vandalizzati e separé con scorci di paesaggi orientali ed eleganti geishe, nella calma apparente di un ragno che si nasconde nell’angolo della sua tela. E come ragni affamati, ma pazienti, hanno aspettato il via che è arrivato tramite il loro dispositivo occhio-orecchio e così hanno dato inizio al massacro. Una carneficina di quell’adunata per nulla igienica, di nostalgici della musica suonata dal vivo che, ricordiamocelo bene, non solo è lesiva per l’immagine della Woland Corporation, ma minaccia la serenità di tutta la città promuovendo un comportamento lontano anni luce dal buonsenso, uno stile di abbigliamento fuori dagli standard del mercato ed un consumo di bevande prive di status. Non è la prima volta che ai Tutori della Serenità si chiede di reprimere nel sangue questo tipo di iniziative e sapevano molto bene come sarebbe andata a finire. 

Quegli individui all’interno dello strip club, che non aderiscono a nessuno dei buyer persona ufficiali, che non rivendicano l’appartenenza a nessuna comunità merceologica e non sfoggiano nessuno status, sono in effetti privi della benché minima struttura ossea come coleotteri senza cuticola. Molli e viscidi che si accasciano sotto i colpi del manganello. 

Basta colpirne molto bene e con molta violenza una decina, per ottenere la resa di tutti gli altri. La cosa più difficile è comprendere quali vanno poi arrestati e quali soltanto spaventati. Non è semplice individuare, all’interno di quel flagello di lacrime, sangue guizzante e ossa fracassate, quali siano i musicisti e quali gli organizzatori. Distinguere chi viene pagato per suonare, da chi guadagna nell’organizzare il concerto e chi acquista un biglietto per assistervi ed è lì come pubblico pagante, è praticamente impossibile. Stessi vestiti, stesso cibo, stessi spazi. Nessuna area riservata per i musicisti o manovalanza per portare gli strumenti e fare il soundcheck in attesa delle star. E c’è chi si assenta dal mixer, per sbucciare cipolle e friggere falafel in cucina. Chi, dopo aver finito di suonare, si siede dietro a quei tavoli disseminati lungo le mura del capannone fatiscente o in alcuni casi addirittura lungo il perimetro immaginario di uno spiazzo di un bosco, per vendere magliette dai disegni spettrali, riviste in bianco e nero e rilegate con fili di spago o graffette metalliche, dischi incisi su vecchie lastre con crani, carpi e metatarsi fratturati ed esposti senza codici a barre o etichette con il prezzo. 

Per non parlare dello schifo e lo sporco. Perché è tutto così maledettamente lercio, polveroso e brutto. Cessi puzzolenti spesso rotti, dai pavimenti scivolosi di fango, piscio, birra e vomito. Pareti piene di scritte, adesivi e volantini sbiaditi con le indicazioni cifrate del prossimo concerto clandestino. Cani e merde di cani. Ratti e bava di lumaca. E gli abbracci tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, a gruppi di due, tre o anche mezza dozzina di persone abbracciate tra loro e i baci con la lingua, schiacciati contro le pareti sudice o buttati per terra in mezzo alle lattine vuote e i mozziconi di sigaretta, come cani.

L’agente a capo del blitz odia tutto questo e, sebbene per la legge del buonsenso, sia sconsigliato l’uso della violenza fisica e l’abuso di potere da parte delle Forze della Serenità, non può fare a meno di provare una sensazione di liberazione e catarsi nel momento in cui può finalmente rompere qualche osso di quei selvaggi con il suo manganello in dotazione. 

Ciò che fanno è pericoloso, brutto e inaccettabile. Non guadagnano crediti, punti Autorevolezza o fedeli della propria Comunità Elettronica e mettono loro stessi in una situazione di rischio sanitario e imprevedibilità, per cosa? L’agente camuffato nel suo esoscheletro non lo capisce e ciò che non può essere capito, che mette in discussione quelle regole che ci permettono di avere il controllo sulle nostre esistenze, va combattuto e sconfitto.

Le regole di una comunità sono dogmi che non ammettono eccezioni, trasformazioni o alcuna forma di evoluzione perché la società è un’organizzazione di tipo razionale e non un organismo vivente che muta, si adatta e reagisce in base ai fattori esterni, all’emotività dei singoli e, soprattutto, alle fragilità degli ultimi. Perché una società basata sulla fragilità o il sensibile sentire è destinata a mettersi sempre in discussione, rivedere le proprie regole, o adattarle, e nessuno vuole questo. Nessuno vuole vivere nell’incertezza e nella paura. Non più. È una questione di buon senso, per esempio, concedere che esistano ancora – in misura controllabile – questi spazi.

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