13 giugno 2040 – Monte Orsa, Frontiera Nord. Distretto montano della Valceresio. 

La nostra camminata per i ripidi sentieri dei boschi di castagno si è conclusa davanti al cancello degli Inferi della mitologia Cristiana. O un portale, forse, che ci avrebbe fatto viaggiare nel tempo per atterrare coi piedi nel fango delle trincee della Prima Guerra Mondiale. Le premesse non sono delle migliori. Ho pensato.

E infatti, se non avessimo disarticolato i nostri dispositivi occhio-orecchio, una serie di notifiche incalzanti ci avrebbe sconsigliato di seguire Signor Conto alla Rovescia per un Tumore e le sue sigarette puzzolenti, in quella fossa greve. Eppure lui, reso impavido, forse, dalla certezza che presto sarebbe comunque morto male per via del cancro ai polmoni, ci ha sorriso con un solo angolo della bocca – quello libero dalla sigaretta fumante – per far cigolare i battenti di quel cancello arrugginito che ci separava da quel buio così profondo ed estraneo. 

Ho cercato di trasmettere il desiderio di luce al mio dispositivo occhio-orecchio, l’ho cercato con la punta delle dita sulla mia tempia: era ancora lì. Ma era freddo e non pulsava né emetteva quel bianco ronzio, che è il respiro stesso della processione di nuovi dati. Con il dispositivo disarticolato, i miei occhi avrebbero dovuto adattarsi a quel buio. Sono necessari circa trenta minuti affinché la concentrazione di rodopsina sia sufficiente per modificare la fotosensibilità della retina e passare così da una visione diurna a quella notturna. Trenta minuti in cui avremmo dovuto camminare alla cieca, facendo affidamento solo sul suono dei nostri passi e l’aguzzarsi di tutti gli altri sensi. 

Non mi piace il buio e ciò che esso sa celare.

Trenta minuti. 

Trenta minuti in cui avrei dovuto sfidare il mio bisogno epidermico di controllo e accogliere l’imprevisto. Trenta lunghissimi minuti di vuoto che può essere colmato da trappole, agguati e sgambetti di ciò che non può essere previsto o che forse non esiste. Ho cominciato un conto alla rovescia silenzioso, come la sabbia che scivola giù dalla stretta vita di una clessidra, dividendo la luce dall’oscurità. Trenta minuti prima di addomesticare le ombre e definire la loro cattività… 

«Non vuoi una torcia?» mi ha chiesto Mister Enfisema vendendomi paralizzata all’ingresso del lungo tunnel oscuro.

«È buio dentro!» ha concluso con un sorriso storto e giallastro, sfregando una torcia sferica tra le mani per generare un campo magnetico. La torcia a carica elettrostatica si è attivata emanando un alone freddo di luce senza riflessi, più simile alla nebbia che a raggi pronti a fendere le tenebre, ma meglio di niente!  Ho sfregato le mie mani una contro l’altra e ho schiuso le dita affinché la luce, attratta dal mio campo magnetico, ha fatto un balzo controllato verso di me e lì si è depositata, senza toccarmi, come un bombo disturbato che fluttua da un fiore all’altro,  senza mai rinunciare al volo. 
Con la sfera sospesa davanti a me, sono riuscita a scorgere delle scale oltre al cancello. Mi sono voltata, un’ultima volta, per cercare con lo sguardo Fausto, Giulio e Monica. Ognuno di loro aveva la propria sfera luminosa che balenava sui palmi delle mani. Mi hanno sorriso e Monica mi si è messa accanto e, insieme, abbiamo varcato la soglia di quella lunga trincea scavata nel XX secolo. 

Fu durante la Prima Guerra Mondiale che il Generale Cadorna decise di portare a termine il grande progetto di fortificazione del confine settentrionale del Paese, dalle valli ossolane fino ai passi orobici. Quarantamila uomini vennero impiegati nella costruzione di strade, sentieri, mulattiere, trincee e depositi dai 600 a 2mila metri di altitudine. Vennero così scavati oltre settanta chilometri di trincee nella roccia della montagna e fatti esplodere centinaia di ordigni, per ricavare più di ottanta postazioni di artiglieria lungo le trincee e noi, a distanza di oltre un secolo, ci trovavamo proprio lì, in una di quelle postazioni – ferite aperte nella roccia – predisposte ad ospitare cannoni, mortai e disperati con un fucile carico in mano. 

Abbiamo camminato per diversi minuti lungo un tunnel scivoloso e ostile, con le gocce di umidità che cadevano da quel soffitto scavato nella pietra e spaccato, qua e là, dalle radici degli alberi che aveva avuto l’esclusiva di invadere, storicamente, la fortezza. 
«Sono anni ormai che ci troviamo qui. Queste trincee sono diventate la nostra casa. Qui ci sentiamo come se… Maledetto figlio di uno stronzo malcagato da un cane malato e puzzolente!» ha urlato a un certo punto la Valchiria, arrestandosi di colpo sui suoi piedi e interrompendo il cammino della carovana che la seguiva. La marcia è ripartita pochi istanti dopo, senza però che si fosse interrotta quella rara e maleducatissima manifestazione di improperi e turpiloquio da parte della Valchiria che si è avvicinata, con lunghe falcate agili e minacciose come lo scatto di un predatore, verso il volto nobile e seducente di Michail “Huxley” Woland in persona che riempiva un’intera parete della caverna. 
«Willy Wonka e la tua fabbrica di merda, che tu sia maledetto!» ha detto avvicinandosi con aria di sfida a quello che però era solo il simulacro dell’uomo più potente e subdolo del mondo. 
«Ti piace?» ha chiesto Ballard. «L’idea è sua…» ha detto, indicando Fausto, che ci ha raggiunto sorridendo, come al suo solito, deformando la bocca in un ghigno cattivo.
«Durante la nostra esibizione chiederemo di lasciare un segno sulla gigantografia del faccione del Signor Woland. Una scritta, una firma, una foto… uno sputo!»Ballard non se l’è fatto dire due volte e, abbandonato il suo carico a terra, ha raggiunto la gigantografia di Woland e ci ha pisciato sopra nonostante le proteste, non abbastanza autorevoli, di Monica.
«Hey, abbiamo intenzione di portarcelo dietro per tutto il tour! Non ho voglia di viaggiare su un camper puzzolente della tua urina!» ha detto, fornendomi così il gancio per poter affrontare con lei un discorso a me molto caro: l’igiene di Monica. O meglio, il suo concetto di igiene e la sua percezione degli odori che emana. 

Conosco Monica da ormai diversi mesi e credo che cambi più spesso i vestiti della sua gallina che i suoi. Mi chiedo cosa ci sia in quel vano puzzolente sotto il suo letto da cui attinge abitini, tutù e gonelline colorate per la gallina, ma da cui non tira mai fuori qualcosa per se stessa. Indossa la stessa maglietta da quando la conosco.
«Tanto non ha le ascelle!» si è giustificata, non senza ragione, dal momento in cui definire ciò che indossa una t-shirt effettivamente è un po’ fantasioso. Monica indossa quella che un tempo, molto lontano, doveva essere una maglietta ma di cui, adesso, ciò che rimane, sono dei lembi con un buco in mezzo per la testa e due lunghi squarci che partono dalle spalle, arrivano sui fianchi dove un nodo sigilla i lembi. Ed è oggettivo che il vuoto costituito dagli squarci laterali, non possa essere contaminato dalla puzza di sudore che il contatto diretto con le ascelle può creare, ma è altrettanto vero che da quegli squarci laterali gli esca sovente una tetta. 
«Tanto non ce le ho le tette e non le ho mai avute!» si è giustificata, ancora, nel momento in cui chiedevo lumi in merito alla sua presa di posizione di non lavarsi, non cambiarsi e ignorare il buonsenso di non uscire di casa con le tette di fuori. No, non c’entra il pudore. Nella nostra società non esiste la vergogna, perché non esiste l’idea del peccato carnale e il corpo della donna non è più sessualizzato o usato per sedurre, vendere o tentare ma, dati alla mano, si è rivelato molto più vantaggioso educare le donne a coprirsi piuttosto di insegnare agli uomini a non mal interpretare certi segnali e, per evitare le aggressioni di natura sessuale, molestie e abusi, il regime del Buonsenso sconsiglia vivamente alle donne di indossare capi che possano essere oggettivamente considerati sexy. 
La Woland Corporation rilascia una lista stagionale aggiornata poiché, si sa, i canoni erotici cambiano in base al momento storico, le tradizioni culturali, il clima, il benessere psico-sociale collettivo e tanti, tanti, altri fattori. Uscire con le tette di fuori, devo dire, che è una presenza piuttosto costante all’interno di queste liste.  

Ma sembra che a Monica non importi. Per lei niente ha valore, tranne quella maglietta puzzolente o quella borsa logora e sbiadita o quegli anfibi sbucciati. Il suo basso consumato che non cambierebbe con nessun altro strumento al mondo. Il camper rattoppato e sfinito dalla strada che ancora dovrà percorrere. Apparecchiare la tavola in qualsiasi situazione, chiederti un milione di volte al giorno “come stai?” e non ascoltare mai davvero la risposta. Monica vive in un mondo in cui il senso di ogni cosa è mutevole e arbitrario e, in assenza di certezze, bisogna abbandonare il superfluo, il dovuto, il non sentito. Aggrapparsi con tutte le forze, invece, celebrare e proteggere quei minimi rituali che sono luogo di cura e amore. 

Per fortuna Monica, con quella sua voce da bambina con la raucedine, è riuscita a convincere altri punx, che già avevano abbassato la zip dei pantaloni, a non far diventare un rituale (decisamente privo di amore) il pisciare contro la gigantografia di Woland. 
«Trasformate quella cosa gassosa e pesante che è l’odio, in linee e colori! Non sprecate quell’energia! Liberatevi della rabbia con gioia e creatività!» ha sussurrato Monica, nelle orecchie dei ragazzi e delle ragazze – sempre più numerosi – che si erano arrampicati fino a lì per assistere ad un concerto. Abbracciandoli tutti, posando una mano sopra le loro spalle, baciandoli sulla fronte come una zia ubriaca ad un matrimonio e dando via al primo segno, dopo il piscio di Ballard,  a quell’opera d’arte corale, situazionista ed  iconoclasta. 

Dopo una cena a base di fagioli in scatola e panini avvolti nella stagnola, innaffiando tutto con ingenti quantità di birra in lattina, siamo tornati nella caverna centrale per assistere al primo concerto della band di apertura e ciò che abbiamo trovato ci ha tolto il respiro: armati di pennelli, pennarelli e bombolette spray un gruppetto di artisti improvvisati, ha trasformato il volto di Woland in quello di un mostro, sotto la cui pelle lacerata si nascondono le verdi squame di un rettile. E in quegli occhi, gialli e rossi dalla pupilla a taglio, lo sguardo feroce e afflitto di chi viene smascherato. Accanto a quel volto, al posto delle lettere che compongono il suo ed il nostro credo – la felicità se non è misurabile, non è – ne è comparsa un’altra che recita: “To the heroism of resistance fighters – past, present and future” con una grande “A” cerchiata in calce.   

La band ha preso posto in quello che doveva essere il palco. Alcune ragazze gotiche vestite di pizzi neri e tutù di tulle funerei urlavano, da una parte all’altra della caverna, comandi ed indicazioni per attivare i generatori elettrostatici. Per avviarli era necessario dare una spinta iniziale attraverso un sistema di propulsione dinamica – ovvero delle cyclette modificate – e le tre spose delle tenebre si sono sfidate a carta, forbici e sasso per stabilire a chi sarebbe toccato pedalare. Una volta avviato il generatore, sarebbero bastati i nostri corpi in movimento, il sudore e il calore generato dai cori e le danze, per avere l’energia necessaria all’alimentazione dell’impianto luci e audio. 
Ballard, ancora sporco di vernice, ha preso posto dietro al mixer da cui partivano tanti e diversi cavi, che sembravano le viscide propaggini di un mostro paludoso tentacolare. Gli altoparlanti, ai lati della band, sono stati ricavati modificando quelle che dovevano essere delle casse di munizioni, in cui erano stati inseriti grossi coni, tenuti insieme con nastro isolante e filo di sutura. 
La Valchiria si è seduta dietro alla batteria. Una vera batteria. Con cassa, tom, timpano, rullante, piatti e persino il charleston. Fausto ne è rimasto rapito. La Valchiria, seduta là dietro, con le bacchette in mano, era una dea guerriera pronta a dare inizio e governare i tempi feroci di una battaglia tribale per la sopravvivenza.   

So che esiste un mercato di veri strumenti destinati a collezionisti e nostalgici dell’epoca ma ovviamente è vietato suonarli e, per non creare infruttuose tentazioni, gli strumenti musicali in vendita non sono nelle condizioni di emettere alcun suono.
Chitarre con corde in polimeri rigidi che riproducono, ma solo all’apparenza, la spessa elasticità e la ruvidezza del Mi basso o l’algida tensione del Mi Cantino. Corde impassibili al tocco di dita senza calli, che sono dono degli errori e della dedizione. Timpani flosci le cui pelli non possono assorbire l’urto dei colpi inferti. Pianoforti che sono gusci senz’anima, il cui bianco e nero di tasti ciechi non saprebbe come intonare meccanica alcuna.  

Non c’è musica senza movimento.

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