But she couldn’t stay,
She had to break away.
Sheena is a punk rocker, RAMONES

Era primavera ed io fui convocata alla mia prima Officina di Lavoro riservata ai dirigenti. Ero stata trasferita dal secondo al terzo piano del Grande Palazzo, grazie all’individuazione dello schema alla base di questo redivivo bisogno di passione, che mi aveva fatto ottenere una promozione. Venni accolta nell’auditorium, secondo il regolamento aziendale, con un video messaggio – sempre lo stesso – di Michail “Huxley” Woland in persona che recitava il nostro credo. 

Non esistono macchine senza acciaio o drammi senza instabilità sociale. Ho scelto la serenità di ottenere ciò che voglio e non desiderare ciò che non posso ottenere. Io sto bene. Sono al sicuro. 
Ignoro la malattia e non temo la morte, perché diserto la vecchiaia di quel padre e quella madre che ingombrano la mia mente. Non ho figli da proteggere, amanti da sedurre o amori da conquistare, perché ho rinunciato alla violenza delle emozioni e alla fragilità della carne. 
Scelgo la felicità misurabile ed effettiva a discapito della lotta contro la sfortuna, le tentazioni, i dubbi e le passioni. 
Non ho bisogno di eroismo o di salvezza, perché non esistono vittime e martiri in assenza di carnefici e non esistono carnefici se non ci è concessa la vulnerabilità. 
Non cerco l’avventura perché non accolgo l’imprevedibile. 
Ho scelto l’armonia degli ingranaggi, la poesia della programmazione e la grazia dell’infallibilità del calcolo. 
Ho scelto di non scegliere e vivere nella beatitudine che non è mai maestosa o spettacolare. La felicità non è mai grandiosa. 

«La felicità se non è misurabile, non è! La felicità se non è misurabile, non è!» cantilenarono tutti in coro e io li seguii, sfiorando con la punta delle dita il mio nuovo dispositivo occhio-orecchio di nano-chips, acciaio chirurgico, silicone e rame e stirando qualche piega della mia nuova divisa color smeraldo, riservata ai collaboratori del terzo piano del Grande Palazzo.

 Di fronte alla mia seduta era stata lasciata una copia serigrafata di “Il nuovo mondo” di Aldous Huxley, riscritta da Michail Woland, nella sua edizione speciale per l’anniversario della fondazione della Woland Corporation. Un dono per il mio passaggio di livello alla classe superiore all’interno dell’organizzazione aziendale. 

La sfogliai ripercorrendo quella storia che già conoscevo. 

Il lento e inarrestabile processo di disumanizzazione, di rinuncia all’empatia e di accettazione della logica e del buonsenso, come unica forma di sopravvivenza e pace sociale, trovò il suo dogma tra le pagine del romanzo di Huxley, i cui diritti vennero acquisiti dalla più grande azienda della Federazione Post-Europea, la Woland Corporation, appunto.

Con le economie dell’antica Russia e l’antica Cina riunite, grazie alla fusione delle più importanti aziende nazionali (nanotecnologia cinese e fabbrica del consenso sovietica), Michail Woland – l’amministratore delegato dell’omonima corporazione – è l’uomo più potente del Nord del Mondo, in grado di controllare l’industria tecnologica, farmaceutica e logistica, il mercato dell’intrattenimento, dello spettacolo e della cultura. Qual è l’origine della sua fortuna? Essere riuscito a conquistare il monopolio dei dati e della loro elaborazione. 

Fu la direttrice della Divisione di Commercializzazione che, dopo aver sorpreso una sua sottoposta leggere quel libro in pausa pranzo – violando il regolamento interno che vietava i passatempi solitari e sfidando l’etichetta sociale che sconsigliava la lettura di romanzi – incuriosita dal volume sequestrato, lo sfogliò e ne scoprì il potenziale.

Organizzò un gruppo di lavoro a cui commissionò una scheda ed un’analisi approfondita del testo, che passò alla Divisione di Gestione delle Crisi la quale, a sua volta, ne fece derivare alcuni algoritmi applicabili ai fenomeni sociali contemporanei. Ne emerse che la fantascienza distopica negli Anni Settanta era in realtà un ottimo modello sociale replicabile ed esportabile, sia nel Nord ché nel Sud del Mondo. Vi era persino un caso storico, riportato nella diapositiva n°1984, in cui si faceva riferimento ad un altro romanzo di fantascienza elevato a testo sacro da una setta chiamata Scientology. 

E così Michail Woland divenne Michail “Huxley” Woland, di sua spontanea iniziativa ed intuizione, galvanizzato dall’idea di vedere il proprio nome stampato sulla nuova Bibbia, il nuovo Corano o il Mussar della modernità. La direttrice della Divisione di Commercializzazione la reputò una scelta molto saggia e, nell’arco di un semestre, una nuova versione di “Il Nuovo Mondo” era sul comodino, nelle biblioteche aziendali e nelle sale d’attesa di buona parte del Nord del mondo. 

«La felicità se non è misurabile, non è» si dicevano l’un l’altro, scambiandosi il formale segno di pace previsto alla conclusione del credo. Il segno non prevedeva alcun contatto fisico ma i due interlocutori, voltandosi faccia a faccia, chiudevano pollice e indice della mano sinistra incorniciando l’occhio con uno zero, mentre alzavano l’indice della mano destra verso il cielo ad imitare il numero 1. Zero e uno, zero e uno, dopo zero e uno, venne il mio turno e così risposi al segno di pace all’uomo che stava alla mia sinistra, e lo replicai voltandomi verso la donna che stava alla mia destra, ripetendo: «La felicità se non è misurabile, non è» unendomi a quel brusìo che riempiva l’aria aromatizzata alla menta piperita dell’auditorium. Ma, nel pronunciare quelle parole che tante volte avevo ripetuto nell’arco della mia vita, suonarono diverse. Suonarono come sbagliate e producevano un suono sgradevole. E allora le sillabai di nuovo nella mia mente, ancora e ancora. Ed era come masticare stoffa al posto della succosa pesca che credevo di aver addentato. 

Ma perché? Il punto è che non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto – concreto e tangibile – che i dati da me raccolti ed elaborati raccontavano qualcosa di diverso circa l’idea di felicità. Ma come potevo mettere in discussione l’intero apparato su cui si reggeva la nostra società e il nostro benessere? Chi ero io per oppormi o criticare ciò che andava bene agli altri. Gli altri… 

Mi guardai attorno e la sensazione fu quella di non essere più parte, di non appartenere, a ciò che mi circondava. E no, non era colpa di essere stata promossa da poco ed essere magari l’ultima arrivata. Questa mia condizione, semmai, mi aveva portato soltanto a non dare per scontata ogni cosa. Ad osservare le circostanze con un occhio nuovo e non assuefatto alla norma, come quando si legge la prima pagina di un trattato di una scienza ignota e ogni cosa è aliena e la mente è carica di elettrostaticità, eccitata e pronta a balenare di scosse e scintille al minimo contatto o attrito. 

Ero sconnessa, scollegata, dalle persone che mi circondavano ma, soprattutto, in quel momento mi resi conto di non credere alle parole dell’uomo più potente del mondo. Questa nuova consapevolezza si convertì in un brivido lungo tutto il corpo, per poi passare e lasciarmi spaesata, con un sorriso sulle labbra, potente e confusa, ma presente per davvero, in quel qui e ora in opposizione all’esistente, che aveva un nome ed era il mio. 

Mi chiamo Dorotea Disastro e prima di allora non sapevo cosa fosse il punk.

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