8. Senti il richiamo | IL GRANDE ROGO DEL ’25

8. Senti il richiamo | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Mi lasciai alle spalle il Grande Palazzo, sede della filiale italiana della Woland Corporation, che non era ancora scoccato mezzogiorno per accorgermi che diluviava. All’interno dell’edificio le finestre erano, in realtà, schermi che irradiavano la giusta intensità di raggi solari per stimolare la produzione di Vitamina D, proiettando cieli azzurri solleticati da qualche nuvoletta candida e soffice, come la schiuma che ricopriva l’aquapark dei Navigli, dividendo in due la città. 
 Mi fiondai giù per le scale della Metropolitana che mi avrebbe portato nel quartiere residenziale di Fausto quando, il mio dispositivo occhio-orecchio, mi trasmise il dato di aver portato a termine la sfida del digiuno intermittente e concluso il mio periodo di disintossicazione settimanale. 
Confermai di non avevo assimilato calorie, né sprecato risorse alimentari nelle ultime 48 ore con un tocco sulla tempia. Con altri due tocchi ravvicinati scattai una foto, sorridendo in direzione del mio dispositivo microdermale innestato sul polso. Un altro tocco ancora e l’autoscatto venne pubblicato sul mio diario alimentare e condiviso tra la mia comunità elettronica della piattaforma dedicata ad una sana e corretta alimentazione e all’equa redistribuzione delle risorse della Terra. 
Mi voltai con un dietrofront improvviso, per tornare nella mensa del giardino pensile del Grande Palazzo, ma un ostacolo bloccò il mio cammino con un urto violento. Da quell’incontro-scontro ne venne fuori un trambusto di lattine rotolanti giù per le scale della metro, piume nere ed un concertino di starnazzamenti, strilli vibranti e delle scuse emesse da una voce che ricordava il sapore dello zucchero filato un po’ sbruciacchiato.
«Oh, che sbadata. Scusami, amica. Scusami, ma non ti ho vista!» disse l’ostacolo, confondendomi con un sorriso stralunato e bellissimo, nonostante fossi io la colpevole di disattenzione e la parte attiva di quel placcaggio metropolitano. La aiutai a raccogliere quelle lattine che scoprii contenevano cibo per animali e le infilai in una borsa logora di un nero sbiadito, in cui intravidi un logo scrostato di un’azienda che non conoscevo ma che doveva, un tempo lontano, raffigurare la zampa di un cane accanto al pugno di un umano, entrambi circondati da’un aureola di lettere che non riuscivo ad interpretare. 

Era una donna assurda con nastri e dadi di acciaio tra i capelli stopposi, che avevano i colori slavati di un timido arcobaleno che si riflette sulla superficie di una pozzanghera. Non aveva un buon odore, o meglio, aveva un odore che io non avevo mai attribuito ad una donna ed era simile al fango, all’erba dei prati, alla pelliccia dei gatti, alla resina degli alberi, alla ciccia dei bimbi, ai broccoli bolliti e all’ammoniaca.
«Grazie, amica mia» ripeté, prendendomi le mani tra le sue, per poi andare via con una gallina nera, stretta in una buffa pettorina piena di balze e fiocchetti, attaccata ad un guinzaglio.
«Pol-pot, pol-pot, pol-pot» chiocciava la gallina guardandomi con severa dignità, nonostante il grosso tutù di pizzi e merletti viola, che avvolgeva metà del suo corpo.
Ma più della pennuta al guinzaglio col tutù, mi colpì il fatto che per la seconda volta, nell’arco di una manciata di minuti, due persone avevano stabilito un contatto fisico non occasionale con me. Potevo ancora sentire quella sensazione improvvisa, ma ferma, della mano di Fausto sulla mia spalla che persisteva, come se avesse lasciato delle spore sulla mia pelle. 

È dal 2020 che il distanziamento sociale è diventato legge, a seguito della pandemia, ed è stato adottato come buona etichetta anche dopo aver debellato il virus, per una mera questione di buonsenso. Toccarsi rappresentava comunque un rischio e allora perché baciarsi, abbracciarsi o stringersi le mani per salutarsi? Eppure pochi minuti prima Fausto mi aveva appoggiato una mano sulla spalla ed ora la donna della gallina, con quella sua stretta avvolgente e delicata e quella sensazione di contaminazione. 

Mi guardai le mani, convinta che quel contagio si doveva tradurre anche in una manifestazione visibile ai miei occhi. Ma niente… le mie mani erano quelle di sempre e tenevano in mano una scatoletta di cibo in mousse per gatti anziani.

«Perché hai in mano una scatoletta di cibo per gatti senza denti?» mi chiese Fausto, non appena varcai la soglia di casa sua.
«Se hai fame possiamo ordinare qualcosa» disse piegando un sopracciglio che trascinò con sé, come il filo di un burattino, anche l’angolo della bocca in un sorriso sbilenco e scanzonato.
«Il fattorino sarà felice di farsi il viaggio in una così bella giornata» disse. Stavo per obiettare indicando i miei vestiti zuppi, tralasciando il fatto che non avrei mai mangiato cibo per gatto neanche in una situazione di emergenza, ma poi capii che lo aveva fatto ancora. Quella cosa dell’ironia. Che schifo.

Gli raccontai cosa mi era successo, della donna coi capelli del colore dell’arcobaleno sbiadito, della gallina al guinzaglio e di quel logo aziendale che non avevo riconosciuto.
«Non è un logo – rispose – è un simbolo».
E non disse più nulla per qualche minuto, ma mi fece accomodare con un cenno sul grosso divano color perla e accendendo con un telecomando un camino a led, incurante del mio giacchino di jeans fradicio e delle piccole pozzanghere di pioggia e sporcizia che avevo lasciato lungo il mio cammino.

«Quello che hai visto era uno dei simboli usati dagli animalisti prima della grande riforma del Buonsenso. Ai tempi c’era chi aveva deciso di battersi in difesa di chi non poteva farlo» urlò dalla cucina.
«E perché? Quale beneficio portava, a questa gente, combattere per chi non poteva dare nulla in cambio? Mi sembra poco sensato e ancor di più rivendicare questa stupida irrazionalità indossando un marchio che lo renda manifesto» obiettai.
 «Si tratta di qualcosa che tu non hai avuto tempo e modo di conoscere. Parliamo di un ideale ed è anche di questo che ti devo parlare, se vogliamo lavorare bene e presentare il rapporto più sensato di tutte le altre squadre dell’Officina di Lavoro» disse, tornando con due grosse lattine di birra in mano ed un asciugamano con cui cercai di asciugare il ricordo di quel temporale inaspettato di cui erano intrisi miei capelli. 

Osservai quei buffi cilindri di alluminio attraversati da sentieri di condensa, che si trasformava in piccole gocce nello scivolare verso le mani ben curate di Fausto. Le lattine… un formato che nessun produttore di birra, in grado di pagare uno studio di commercializzazione e di analisi dei sentimenti, metterebbe mai sul mercato! Un arcaico e sgradevole metodo di assunzione degli alcolici che riportava a quella volgare mediocrità di quegli anni in cui, la birra era ancora una bevanda economica, popolare e monosapore. Non sapevo neanche come si bevesse una birra da una lattina e mi faceva anche un po’ schifo l’idea di appoggiare le labbra sull’alluminio. Chi poteva rassicurarmi sul fatto che non fossero rotolate per terra o che chi le aveva maneggiate, per l’intero arco della filiera,  avesse sempre avuto le mani ben lavate? E la polvere che cade dal cielo, l’inquinamento domestico dei toner e…
«Toh, bevi – disse brusco Fausto intuendo i miei pensieri – non essere paranoica» concluse, porgendomi la lattina che aveva appena aperto. Trovai eccessivo associare una psicosi, alla mia razionalissima attitudine a destrutturare una filiera produttiva per individuare le possibili falle igieniche, ma con Fausto era così, stavo imparando a conoscerlo, iperbole e paradossi disseminati nella conversazione, come bolle di anidride carbonica che frizzavano nella schiuma della birra in una lattina troppo fredda e che tenevo in mano.  
La studiai con sospetto per qualche istante. Non conoscevo l’azienda produttrice poiché non era presente sulla rete, né sugli spazi pubblicitari urbani, né tanto meno in quelli astrali o onirici con cui controlliamo i nostri sogni. 
La lattina era verde scuro e conteneva circa mezzo litro di liquido, ma nessun gusto veniva indicato tra le poche scritte che comparivano su di essa (una birra al gusto birra?), ma riuscii ad individuare un simbolo di divieto attorno alla sagoma di una donna incinta. Davvero c’era bisogno di illustrare su una lattina il divieto di bere alcolici per le donne incinte? Doveva essere un’altra delle stranezze di quell’epoca in cui il buonsenso non era ancora legge. 

Finkbrau: nome e confezione non promettevano nessuna ricompensa sociale e non raccontava nulla che potesse farmi capire a quale potenziale comunità di consumatori appartenessero i bevitori. Nessun manifesto. Nessuna adesione ad un modello. Nessuna dichiarazione d’intenti. Una birra e nient’altro. Eppure mi feci coraggio e appoggiai le labbra al cerchio argentato della lattina e, inclinando la testa all’indietro, lasciai scorrere nella gola un generoso sorso di liquido giallastro e amarognolo, che mi solleticò il palato. Il mio primo sorso della mia prima lattina di Finkbrau, di quelli che sarebbero stati innumerevoli sorsi di innumerevoli lattine di squisitissima birraccia, che io e Fausto avremmo bevuto insieme.

Mancavano esattamente 382 giorni al nostro arresto da parte dei Tutori della Serenità, ma quella notte non avremmo potuto neanche programmarlo nei nostri incubi più oscuri. 

 «Dammi il pacchetto» ordinò Fausto, alzandosi e dirigendosi verso la cucina con la sua lattina in mano, che svuotò in un ultimo lungo sorso, per poi accartocciarla tra le dita e liberarsene con un canestro nel lavandino. Tornò con altre due lattine e delle patatine nel sacchetto che cominciò a sgranocchiare, tuffandoci le dita dentro, incurante delle norme basilari di igiene ed educazione. Pensai che bere le bevande in voga negli anni Venti lo avesse reso nostalgico. Non potevo spiegarmi altrimenti quella forma puerile di ribellione alla legge sulla sicurezza batteriologica che, in effetti, era sconosciuta nell’epoca pre-pandemica in cui Fausto doveva essere stato adolescente. 
Aprii lo zaino e sfilai quel pacchetto avvolto in carta color tabacco, che lui mi strappò bruscamente dalle mani per scartarlo come un selvaggio, come se ignorasse i corretti passaggi dell’arte dello spacchettamento dei prodotti, che tanti savi avevano reso dogma. La volgare, frettolosa e disordinata lacerazione dell’involucro aprì uno spiraglio su qualcosa che lo fece sorridere.
«Non ci credo! Questo mi mancava» disse euforico, fiondandosi verso un mobile di metallo color canna di fucile che custodiva un giradischi. Mi risultò bizzarro che lo nascondesse dietro a delle antine e che non ne facesse sfoggio come ci si aspetterebbe da ogni amatore della musica di statistica! Persino io ne avevo uno esposto nella mia stanza affittata, tra un vecchio mangianastri e la mia collezione di vinili mai ascoltati e sigillati ermeticamente. 

Ognuno di quegli album, che avevo fotografato e condiviso a favore della mia comunità elettrica di fedeli, mi aveva garantito un avanzamento nella gerarchia di ascolto della piattaforma musicale della Woland Corporation. La mia collezione di dischi e i relativi video di spacchettamento in cui mostravo il contenuto, per poi apporre nuovamente il sigillo in ceralacca, non passò inosservata alla Woland Corporation con cui, ben presto, iniziai una relazione lavorativa come assistente di Fausto. Alcuni colleghi dissero che era stato lui a segnalarmi e a volermi con sé, ma il suo essere così rude, imprevedibile e irriverente nei miei confronti non mi fece mai sposare quella teoria, eppure quel giorno mi aveva cercato – ancora – e voluta per quel lavoro così importante! 

E così mi ero ritrovata da sola a casa sua, nella sua camera da letto, davanti a ciò che poteva essere considerato disdicevole agli occhi di chiunque, ma che aveva deciso di mostrarmi.
Fausto, aprendo le antine di quel mobile color canna di fucile, mise in luce un caos di copertine scolorite e logore, musicassette dalla confezione di plastica ingiallita e addirittura dei dischi compatti d’argento ammassati uno sopra l’altro. Quell’uomo nascondeva diverse stranezze e atteggiamenti fuori statistica, non c’era più alcun dubbio in merito – come bere la birra e ascoltare per davvero la musica su supporti fisici – e così fece, cercando i miei occhi e con un sorriso che non era però una smorfia, appoggiò quel piccolo disco in vinile grande come un piatto da dessert, sul giradischi.
Dalle casse dello stereo partì un sibilo di una chitarra distorta in lontananza ed il riff di una motosega sempre più vicino e minaccioso, l’eco di un urlo soffocato e poi il frangersi di onde contro la roccia e l’acciaio, per tre volte, e poi il ringhio di una voce maschile sull’orlo del precipizio ed io che mi sentì con le spalle al muro. Quello… quell’istante e quella voce. Quello fu il momento in cui capii di essere spacciata.
Seguirono diversi minuti di silenzio e stordimento. Mi attaccai alla lattina di birra che mi dissetò come nessuna bevanda aveva mai fatto prima.

 «Di nuovo» chiesi, e Fausto spostò il braccino del giradischi per riporre la puntina sui solchi più estremi del vinile. Quando finimmo di ascoltare l’EP ero ormai sbronza e così Fausto. Il sole stava tramontando e noi non avevamo lavorato a neanche una diapositiva da presentare il giorno successivo. Ci eravamo a malapena parlati. Non avevamo fatto altro che bere birre e ascoltare a ripetizione ogni singola traccia del disco, con gli occhi fissi sull’astuccio di cartone logoro che lo custodiva. 

Dal nero dello sfondo si stagliava una luce che, come raggi di luna, esplodevano da una crepa della notte. Una luna maledetta che ha il volto della morte e gli artigli di un rapace, pronto a dilaniare un cuore. Il mio cuore, ormai lo sapevo. Studiai per momenti interminabili anche il retro dell’album in cui la morte, dai lunghi capelli spettrali, stende un sudario su cui vengono svelati i titoli delle sei tracce che stavamo ascoltando da ore e ore. E quelle foto così fuori dal tempo e dalle statistiche e i loro nomi: Giammario, Fabio, Zambo e Daniele. Chi erano questi uomini? Avrei voluto chiederlo a Fausto che sembrava conoscere tutte quelle parole urlate impunemente e che sembrava sul punto di piangere. Per la prima volta lo vidi così fragile, autentico e fiero. 

Conoscevo la fragilità di chi, per il troppo lavoro o perché ebbro, fa emergere le proprie emozioni, così come conoscevo la fierezza di chi non permette al proprio sentire di indebolirlo. Ma non avevo mai visto queste due dimensioni dell’aspetto più animale, dell’essere umano, convivere. 
Io, che mi truccavo per nascondere i segni della stanchezza, cintura nera di autodifesa emozionale, fedele al buon senso e all’analisi dei bisogni indotti, perché non esistono bisogni all’infuori di quelli che non sappiamo di avere, ma che sappiamo di poter soddisfare; tra i corridoi e gli uffici della Woland Corporation, tra le vie delle città costruite a misura d’azienda, nei negozi temporanei in cui vendono kit identitari dalle mille opzioni, nessuno mi vieta di essere stanca o fragile, ma è considerato inopportuno e teneramente sconsigliato. Così come la gioia violenta e la devastante tristezza sono state sconfitte, poiché facce differenti della stessa moneta, che ora tintinna nel fondo del barattolo delle mance di chi ci offre soluzioni usa&getta.

Fausto mi guardò, come rapito da una forma di eros e mi confessò:
«Io ne ho molti altri! Ho rubato un’intera scatola oggi, se vuoi li ascoltiamo insieme» mi tentò ed io gliene fui grata. Ubriaca. Elettrificata.

 Giunse l’alba e noi non avevamo lavorato un solo istante. Avevamo finito anche per fare sesso, dimenticandoci di registrarlo sulla piattaforma di incontri sessuali e, vedendolo nudo, scoprii trai suoi bei tatuaggi visibili in maniche di camicia, altri segni indelebili di inchiostro che non avrei potuto vedere se non andandoci a letto insieme. Sulla sua spalla una A cerchiata sembrava incisa sull’osso parietale di un teschio con la cresta. Sul suo petto un pugnale fendeva la carne all’altezza del cuore.

Sul manico della lama c’era scritto “Guenda, 6 aprile 1998 – 31 dicembre 2023” 

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

2. È tempo di andare a nanna per la democrazia | IL GRANDE ROGO DEL ’25

Per i politici, gli uomini d’affari e i comuni consumatori il datismo offre tecnologie all’avanguardia e nuovi immensi poteri. Anche ad accademici e intellettuali permette di rivelare il Sacro Graal scientifico che è sfuggito loro per secoli: una sola teoria onnicomprensiva che unifichi tutte le discipline scientifiche dalla musicologia all’economia e alla biologia. Secondo il datismo, la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla finanziaria e il virus dell’influenza sono soltanto tre pattern di un flusso di dati che può essere analizzato usando gli stessi concetti di base e gli stessi strumenti. Quest’idea è estremamente attraente. 

Homo Deus, YUVAL NOAH HARARI

L’idea sulla carta sembrava vincente. 

Sedevo in una trattoria minimalista, che serviva solo cibo color arancio, insieme a quelli che erano i miei colleghi dell’ufficio “analisi dei sentimenti” della Woland Corporation, una grande multinazionale presente in ventisette paesi del mondo. Bevevamo vino da centotrentatré euro a bottiglia, ottenuto da uva dal DNA modificato per ricordare il colore del tramonto. Era stata una nostra invenzione, la mossa giusta che ci aveva fatto ottenere quell’ambito premio aziendale al merito, per cui stavamo brindando in occasione della festa mensile dedicata alla socializzazione tra dipendenti del colosso sino-russo. Il vino, una volta stappato e fatto decantare, cambiava colore seguendo le mille e una sfumature del sole che tramonta per poi diventare nero come la notte. E, insieme al colore, aumentava la gradazione alcolica passando dai 5° di un leggero aperitivo, per arrivare ai 15° di un cocktail annacquato. Alta ingegneria genetica e una scientifica strategia di comunicazione, per un vino che era composto per il 65% da inchiostro e sintesi. Ma i consumatori lo trovavano romantico e in quei tempi, dati alla mano, la passione e l’emotività erano tornate sulla cresta dell’onda dell’intrattenimento a pagamento. Da noi venivano editori, politici, discografici massoni e industriali a capo di corporazioni che producevano dalle merendine ai sex-toys. L’analisi dei sentimenti stava alla base di ogni decisione commerciale e diplomatica. Il mio lavoro consisteva nel mappare e misurare le cyber-emozioni attraverso un sistema metrico basato sulla vanità, individuare uno schema ricorrente e passare le informazioni ai miei colleghi specializzati nella formulazione dell’algoritmo. 

Il popolo dichiara pubblicamente, di fronte alla propria comunità elettrica, ciò che acquista, mangia, ascolta e pensa poiché indossare quelle scarpe, seguire quella dieta o quel guru,  sostenere o aborrire quella opinione in merito ad una determinata questione sociale, politica o mondana, è motivo di vanto e appartenenza. Qualcosa da esibire, come la felicità di essere ciò che siamo, a proprio agio nelle nostre identità additive di bambole con mille accessori intercambiabili in dotazione. Ogni scelta, una volta individuato lo schema, può essere prevista, suggerita, corretta e appagante, anticipandone il desiderio.  

Io leggevo, osservavo e scavavo nei meandri dell’iperspazio. Ed ero brava in questo, perché non mi fermavo mai a ciò che era manifesto e fatto alla luce del sole, con filtri “bellezza” e innumerevoli scatti scartati a causa di pappagorge traditrici o rotolini di adipe svelati da elastici e cuciture. 
Senza troppa fatica era facile scoprire il sottotesto: noi della Woland abbiamo, dopotutto, accesso agli impulsi neuronali di tutti gli utenti che indossano un dispositivo occhio-orecchio. E se un tempo esistevano cronologie di navigazione da cancellare, musica da ascoltare soltanto quando si è soli, articoli morbosi letti con vergogna di cui non parleresti con nessuno, domande sussurrate in cerca di una diagnosi medica o parole chiave digitate con una mano sola, intanto che l’altra è nelle mutande alla ricerca di un colpevole piacere… adesso ci pensa l’algoritmo a mostrarti quello che vuoi liberandoti dal senso di colpa, la vergogna o l’abulia del dover scegliere tra le infinite possibilità. Che si tratti di cosa mangiare a pranzo o su cosa masturbarsi. 


Ecco, fu proprio da lì, dalle tendenze nella pornografia, che mi accorsi con grande e inaspettata meraviglia, che i video più popolari, suggeriti dagli impulsi neuronali, erano quelli in cui c’era una storia e che il ritmo di questa storia, spesso, era sostenuto da un concatenarsi di invidie, drammi della gelosia, competizione e faide tra classi sociali, ambientate in epoche passate. Ritmo accentuato da una sincopata tensione narrativa che esplodeva, risolvendosi, in grandissime scopate appassionate.

Quella mattina avevo fissato un appuntamento con il mio capo e i miei sette colleghi presenti in ufficio, usando i nostri dispositivi occhio-orecchio. Sette diversi bip, con uno scarto di qualche secondo, notificarono l’invito. Dopo un’altra manciata di secondi mi arrivarono cinque conferme su sette. Il mio collega seduto accanto a me – responsabile della moderazione delle polemiche accese dai nostalgici carnivori – era impegnato in una video-chiamata con la responsabile delle attività extra-lavorative. Il mio superiore mi inoltrò una proposta di anticipare l’incontro di otto minuti. Tolsi il dispositivo occhio-orecchio agganciato alla tempia, feci un giro di 90° sulla mia sedia girevole e chiesi ad alta voce se agli altri andasse bene, ma tutti erano rapiti come falene dalla luce dei monitor e non ottenni risposta. Tutti, tranne l’addetta allo svelamento delle superstizioni e pulsioni anti-scientifiche che annuì, dicendo:
«A me va bene, ma aggiorna l’evento sul calendario condiviso se non ti dispiace»§«Ok, va bene» risposi e altre sette volte i nostri dispositivi occhio-orecchio suonarono per allertarci. Ottenute le sette notifiche di conferma, aspettai i tre minuti che mi separavano dall’ora proiettata in caratteri verde acido oltre la mia retina, mi alzai per andare verso la sala riunioni e così fecero gli altri. 
«Ho sedici minuti e quaranta secondi – disse il mio capo, impostando un orologio digitale a forma di cubetto di ghiaccio al centro del tavolo – parla».

E così, in sedici minuti e trentasei secondi, raccontai cosa avevo scoperto.
«La comunità elettrica ha bisogno di passione» dissi, e illustrai la mia tesi con diverse diapositive con il logo aziendale, grafici a torta e statistiche illustrate, che confermavano ciò che era già intuibile dal titolo della presentazione e cioè: “Tutto è misurabile? Come trasformare la fidelizzazione del cliente in apparente passione, attraverso la trasmissione e il contagio degli ideali liberali”. 

Tra gli intellettuali e i dissidenti dell’epoca delle Democrazie Apparenti, andava molto forte una teoria argomentata e divulgata con cinismo, rassegnazione e con un’implicita sfumatura di biasimo e condanna: la critica verso la società, a loro contemporanea, era quella di non saper imparare nulla dalla Storia e dagli errori del passato. Ed ecco che ogni giorno si vestiva a festa per ricordare quella violenta strage da non perdonare, un olocausto da non ripetere o quelle vittime, seppur generosamente vendicate, da non dimenticare. Nulla di più falso. Ogni individuo e ogni essere vivente (del regno vegetale e animale) lotta per la propria sopravvivenza e, razionalmente, non dovrebbe commettere errori fatali, fare scelte controproducenti o assumere atteggiamenti autodistruttivi per se stessi o la propria specie a cui trasmette, attraverso i geni, queste informazioni essenziali. Questo sul piano razionale, appunto.

Prendiamo ad esempio il cosiddetto “vizio” del fumo, palese manifestazione delle assurde gabbie mentali, delle menzogne confortanti e dell’irrazionale e sconfinata ricerca del profitto di quell’epoca. 
Fumare il tabacco è un inutile passatempo dispendioso, che crea dipendenza psicologica, fa venire il cancro e causa gravissimi danni all’apparato broncopolmonare e al sistema cardiovascolare. Eppure, ai fumatori, non sembrava importare quanto il rapporto tra vantaggi e svantaggi fosse sbilanciato verso questi ultimi. E su questa anomalia, nell’elaborazione e nella lettura ed interpretazione dei dati, che si inseriva l’avidità delle lobby del tabacco, il cui potere influenzava quei governi da cui però ci si aspettava che curassero tutti quei malati, sulla cui infantile rivendicazione di libertà,   l’industria del tabacco traeva un generoso profitto. 
Non fu facile individuare e correggere il bug di quello schema secondo cui, sia le vittime che i carnefici, condividevano il medesimo desiderio: essere liberi di vendere e fumare sigarette, sentirsi liberi di fare e farsi del male. Ma una volta formulato l’algoritmo e dopo una serie di azioni chirurgiche di propaganda e repressione, nonostante  la tenacia kamikaze delle parti coinvolte (i fumatori e i venditori di fumo) si arrivò alla definitiva e razionalmente ovvia distruzione dell’industria delle sigarette, la messa al bando del fumo nei luoghi pubblici e privati e, di conseguenza, l’eliminazione di una gravosa voce passiva dal bilancio del sistema sanitario nazionale.

Era stata la Woland Corporation, grazie al suo sterminato archivio di dati e ai suoi processori, a individuare l’anomalia, a correggerla e a sconfiggere l’industria del tabacco. E fu proprio così che la Woland Corporation cominciò ad analizzare ogni cosa. 

Una volta individuato lo schema e formulato l’algoritmo fu chiaro per tutti e tutte – così per i miserabili che per i burattinai di questi ultimi – che guerra, povertà, ingiustizia e violenza erano da imputare all’irrazionalità, all’imprevedibile sentire, alla furia del ventre e alla follia del sognare di essere liberi, desiderare il potere e sperare di ottenerlo o mantenerlo.  La democrazia, allora, è stata sostituita da analisi scientifiche e calcoli statistici atti a creare proiezioni di ogni possibile scenario, al fine di valutare la scelta più conveniente per la stabilità sociale e, questo metodo, viene applicato anche alle scelte intime e private dei cittadini, circa gli amici da frequentare e i partner a cui legarsi. Così come per il concetto di bello, giusto o buono. 

L’algoritmo è in grado di vagliare infinite possibilità in un lasso di tempo irrisorio, inimmaginabile per la mente dell’uomo. L’algoritmo, inoltre, è più fedele alla realtà rispetto alla narrazione che facciamo di noi stessi e di ciò che ci circonda, perché non subisce l’influenza del vociare del nostro intimo soffrire, la pressione delle aspettative sociali, i ricatti affettivi e i pregiudizi culturali tipici così dei singoli individui come della coscienza delle società e dei gruppi sociali. L’algoritmo raccoglie i dati e li elabora. Punto. L’algoritmo sa prendere le decisioni giuste per noi. Anche se sono difficili e impopolari o molto lontane dalla nostra idea di etica e morale. L’algoritmo non conosce paura e insicurezza. Sia che si parli di gusto del gelato o di diritti umani. È una questione di buonsenso.

Immagine in evidenza elaborata da un dettaglio di un disegno di Miles Johnston.

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

1.Stati di agitazione | IL GRANDE ROGO DEL ’25

STATI DI AGITAZIONE

«Andrà tutto bene» dico al mattone che fisso da circa un’ora.

Mi fanno male le braccia. Maledette appendici sottomesse alla forza di gravità. Dovrebbero stare giù e dondolare come orecchie di cocker e non in questa innaturale posizione di corna di cervo. Ma se tiro giù le braccia, l’uomo alle mie spalle urlerà qualcosa in una lingua che non comprendo, ma che mi fa paura.  

Indossa la mimetica, un passamontagna e un mitra a tracolla come se fosse una BC Rich attaccata al diaframma di un metallaro o di un musicista di liscio.  

«Metallari e animali da balera… Solo loro disdegnavano l’estetica grunge di uno strumento all’altezza dell’inguine, in favore di una maggiore resa tecnica. Loro, con le loro chitarre appuntite ad altezza capezzoli e i gomiti alti come zampe di cavalletta» mi aveva raccontato Fausto, parlando degli anni Venti, all’inizio di questa storia. 

Mi chiedo perché mi torni in mente, proprio ora, questo frammento di conversazione di quella notte. La notte in cui tutto è cominciato. 

Ma la memoria gioca strani scherzi e a volte riemergono ricordi che non reputiamo importanti e al contrario, di questioni considerate fondamentali non rimane che una scia lontana e sfocata alle nostre spalle. 

Rammento molto bene, per esempio, la prima volta in cui Fausto mi ha fatto ridere fino a togliermi il fiato. E adesso che ho paura di morire, non ricordo più come si fa. Vorrei trovare divertente quest’uomo alle mie spalle, dalle manifeste e cattive intenzioni, con le dita sul suo strumento –  che è un fucile e non una BC Rich, non me lo devo scordare – simile ad una cavalletta gigante, pronto ad affrontare un riff in crescendo che leva il respiro. Il mio respiro.  Prana Apana Sushumna Hari.

Il torace: cassa di risonanza di questo battito assordante e del mio affanno, che è musica violenta e mi anima e mi soffoca, come ovatta infilata giù per la gola di una bambola a cui hanno staccato la testa. 

Come faccio a soffiar via il male cantando, se non ho più fiato in gola?

«Gente bizzarra i musicisti che ci tengono a suonare bene. Si contavano sulle dita di una mano» aveva aggiunto Fausto, ricordo. 

Si contano sulle dita che mi rimarranno attaccate alla mano, risparmiate dalla cancrena, quando tutto questo sarà finito. Quando mi sarà chiaro cosa ne sarà di me e degli altri quattrocentoventidue ragazzi, con la faccia al muro e le mani alzate sopra la testa. Quando capirò cosa è andato storto e come ci sono finita con un fucile puntato tra le scapole, in un night club sconsacrato con neon rotti, velluti pieni di pulci ed affreschi rinascimentali vandalizzati che ancora conserva le cicatrici del Grande Rogo Civile del 2025.